
EMANUELE MODICA
il pittore della tenda
Chi sono
Sono Emanuele Modica noto come “il pittore della Tenda”, siciliano, figlio di contadini, innamorato della mia terra e lontano da essa per testimoniare la mia passione per la vita! Qui desidero raccontare parte della mia esperienza umana e artistica. In questa tenda e e in questi quadri c’è mia madre e c’è mio padre; c’è mio padre contadino che sudava venti ore e la mafia, assassina, lo uccise una mattina. Ignazio Buttitta (Canto per gli uccisi dalla mafia) “al pittore della tenda” E. Modica
Contributi
M. BARTOLOTTA, I. BUTTITTA, E. PRISCO, G. GAVAZZINI, LORENZO PIRAS, F. CARBONE
MANUELA BARTOLOTTA
Vorrei brevemente introdurvi Emanuele Modica dal punto di vista artistico e umano e vorrei iniziare con una descrizione in cui mi sono imbattuta recentemente, dopo tanti anni. “Apparve l’aspetto vero della Sicilia, quello nei cui riguardi città barocche ed aranceti non sono che fronzoli trascurabili. L’aspetto di un’aridità ondulante all’infinito, in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in una fase delirante della creazione, un mare che si fosse pietrificato in un attimo in cui il cambiamento di vento avesse reso dementi le onde”. (Gattopardo, III).
In questo passo del Gattopardo sembra di riconoscere la “sicilianità” di Modica, le linee dei suoi paesaggi arsi, i suoi profili pietrificati, mari di marmo, un mondo sottoposto al sortilegio del silenzio, all’immobilità della paura.
Questa è una possibile interpretazione della sua pittura, dall’effetto di marmorizzazione che prosegue fin nelle cornici nascondendo forme e volti che sembrano apparizioni sulla roccia, una lettura espressiva, di una condizione umana “pietrificata” e “ammutolita”, soffocata dalla “Piovra”, intorpidita dalla paura che ha nel paesaggio un riflesso, una simbiosi, proprio come già emergeva, molto prima della mafia, nelle pagine acutissime di Tornasi di Lambedusa. Ma questa caratteristica espressiva della sua arte, per veicolare un messaggio si traduce in uno stile unico, non materico eppur ugualmente plastico, un modo di costruire le figure, di renderne i profili e i volumi tipico più di uno scultore che di un pittore. Anche per questo, oltre che per una ineffabile consonanza spirituale, è possibile accostarlo, nonostante la distanza di secoli - ma l’arte, come lo spirito non ha confini di tempo - a Michelangelo. In effetti di Modica non si trovano confronti se non con lui e non solo per le tematiche prevalentemente religiose ma anche e soprattutto per un’inconsapevole assonanza nella resa dei volti, delle mani, nell’atteggiamento misto di gravita e grazia delle sue Madonne, delle Pietà, nel pathos drammatico dei suoi Cristi. Tanti hanno fatto, riprodotto, imitato Michelangelo, ma un conto è la volontà d’assimilazione, un conto la medesima vibrazione. Non si tratta di un confronto in termini di qualità pittorica (è terribilmente audace avvicinarsi a certe figure artistiche) ma la percezione di un’affinità spirituale che si traduce in analogia formale, un’affinità tanto più intensa perché non cercata, non voluta, una vibrazione di fondo che si manifesta con forza in maniera proporzionale alla distanza temporale con il presunto modello, creando così l’arte con la A maiuscola, ossia legata al presente ma eterna e atemporale nell’epressione, nella comunicazione, solida e perenne proprio come il marmo.
Ed è preoccupazione di Modica (pensiero sempre da scultore) quella di proteggere le sue opere con una cura conservativa sconosciuta ad altri; ritocca e rivernicia, tratta alcuni pezzi per renderli inattaccabili da tarli e agenti atmosferici, e, nel caso del
S. Vincenzo, ha cercato il sistema per custodire senza all’estemporaneità, trovare invece un’elaborazione così profonda e sofferta, una tale dilatazione interiore, un afflato misto, un’intima religiosità. Anche quelle sculture, i “nidi”, che potrebbero essere difiniti “ready made”, o il “sacchetto di terra insanguinato”, estremamente provocatorio e moderno, colpiscono perché non casuali, non intuizioni o slanci di un momento, ma veicoli di messaggi profondi, esiti di una condizione esistenziale, simboli concentratissimi di una filosofìa semplice ed autentica: la natura è madre e creatrice, Dio il primo creatore, l’universo è l’opera d’arte più grande, la vita il miracolo di ogni giorno, la sopraffazione, l’assassinio sono la negazione di tutto questo. Per capire se qualcosa vale davvero, allontaniamocene dopo averlo visto; se il senso, la voce continua a risuonare dentro, era arte vera. Questo concetto valido per ogni forma d’arte, sia musica, poesia, letteratura, cinema, pittura. Se è vero, vince il tempo e lo spazio, la vita e la morte. La dimensione di un artista non dipende dalla preparazione tecnica, dall’accademia, ma da questa spinta incontenibile e autentica, forza della natura, illuminazione superiore; quella che faceva trovare al piccolo Emanuele sulle pareti di una stalla forme immaginifiche. Lo stesso si diceva di Leonardo da Vinci, come ha riportato in un saggio il grande critico Focillon: “su un pezzo di muro in rovina, screpolato dagli inverni, macchiato d’umidità, mangiato da lebbre vegetali e da muffe, Leonardo segue come il tratto di un disegno il percorso enigmatico delle fessure e vi scopre delle forme meravigliose”.
Emanuele Modica è nato come artista, come accade, per un’esigenza di rivolta, una vendetta trasformata in lotta contro il male, l’omertà, la violenza. Dopo l’assassinio di suo padre, ucciso dalla mafia, poteva scegliersi assassino incanalando la sua passione in maniera negativa e infeconda oppure renderla strumento per dar voce alla speranza, alla vita, attraverso l’arte. Un’arte intessuta d’amore e di fede, una tenda dove ha concentrato tutta la sua esistenza e con grande sacrificio e coraggio ha girato in lungo e in largo l’Italia, sfidando timori e pregiudizi. Anche qui a Langhirano, giuntovi nel lontano 1979, non è stato subito accolto ma è stata necessaria una lettera alla Gazzetta, una sorta di sollevazione popolare per far sì che la sua “tenda” e la cultura trovassero posto nella cosiddetta “terra dei prosciutti”. Ora a Langhirano tutti conoscono Modica, per fortuna, ma come tutte le cose nuove e autentìche, ha dovuto sfidare una certa pigrizia intellettuale e forse superficialità. Nemo propheta in patria. Modica è artista anticonvenzionale e combattivo e la sua forza non è solo nella persona, indubbiamente tenace ma soprattutto nella sua arte profonda nei contenuti e originale nell’espressione. Negli anni c’è stato un cambiamento stilistico che segue un percorso inferiore: dalle note vibranti, dai vortici apocalittici della prima maniera, il grido s’è fatto speranza, sui deserti sono cresciuti nidi, il sangue s’è fatto velo, sudario dì resurrezione e le tinte più accese, i rossi frementi, lavici, le corse vorticose dei cavalli d’Apocalisse, le lacerazioni si sono rimarginate in preghiera azzurra - penso alle sue Pietà, alla Colomba della Pace, di cui una è conservata al Museo Austriaco di Kisslegg. all’omaggio al Parmigianino. dove ha coito l’anima del grande artista e in ultimo (last bui not least - ultimo ma non meno importante, dicono gli inglesi) il S. Vincenzo, opera che l’ha turbato nel profondo, dato che Vincenzo era il nome di suo padre e che alla fine ha realizzato come un omaggio ad un martire del passato ma ancor più ad un martire dei nostri tempi, proprio suo padre, ucciso per un pugno di terra, privato del suo diritto alla vita. Questo quadro non è un semplice santino devozionale ma il simbolo del riscatto sulla sopraffazione e l’ingiustizia. Proprio questa sua interpre-tazione personale spiega l’insolita dolcezza dell’atteggiamento, un corvo della tradizione tramutato nella più spirituale colomba e sul petto s’intravede il volto di Cristo, l’emblema del martirio ma anche della salvezza. Quest’opera è stata donata alla chiesa di Manzano. collocata esternamente in un pannello anche se doveva inizialmente essere inserita in facciata insieme alla Pietà e alla Colomba. Ancora i tempi non sono maturi per capire l’importanza e la valorizzazione che questa collocazione darebbe all’edificio; del resto anche per un altro grande artista come Madoi non è stata immediata la comprensione della gente e soprattutto degli “addetti ai lavori”. Ma il tempo è signore. Non si finisce mai di lottare e Modica lo sa bene: anzi lottare fa bene. Questo del resto e il messaggio che porta avanti da sempre, la sua ragione di vita: lottare per la verità, per la giustìzia con l’arma del pennello.
Forse nessuno se n’è mai accorto, ma la sua più grande opera è stata proprio la tenda. Se l’arte è comunicazione, lui ha trovato un modo nuovo, libero e accessibile a tutti (le gallerie spesso non avvicinano all’arte ma allontanano) per esprimersi. Ora la sua tenda è qui e viaggia con i suoi quadri e le nostre parole, per credere e non dimenticare, mai arrendersi e voltarsi in silenzio. Ogni volta che osserviamo una sua opera qualcosa si muove dentro - ogni volta che osserviamo un’opera d’arte, ascoltiamo una musica, leggiamo una poesìa, qualcosa si muove dentro, e senza rendercene conto tocchiamo il cielo, sfioriamo il Mistero, viviamo oltre e come Adamo sulla volta della Slatina, sfioriamo la mano di Dio e rinasciamo.
Che la sua non sia solo una voce che grida nel deserto ma porti i frutti dell’amore. Perché questo in fondo è ciò che conta. Rubando una frase ai Vangeli: “tre cose contano: la Fede, la Speranza e l’Amore” e tutte le troviamo nell’arte di Modica, nella sua vita, ma la principale è l’Amore. Queste opere stanno a dimostrarlo. Manuela Bartolotti
IGNAZIO BUTTITTA
Il Poeta, prima di partorire la sua Poesia, la cova nella mente. Questo mio «canto per gli uccisi dalla mafia» è dedicato, soprattutto, alla drammatica storia di EMANUELE MODICA, il pittore della tenda.
Tanto per intenderci MODICA è un autentico artista, uno di quelli che non nascono come i funghi nei boschi. Sono vecchio e sotto i miei occhi ho visto sfilare migliala di pittori e poeti più o meno validi che poi, tanti, si sono estinti come tante bolle di sapone.
MODICA, da buon siciliano, è forte come una roccia e quindi resiste e dopo un lungo e faticoso lavoro è diventato un pittore popolare, di lui si parla perché la sua vita è tutta un’odissea, è tutta una poesia VERA!
È dal 1969 che gira per paesi e città esponendo nella sua tenda, portando a tutti, in particolare ai giovani, il suo messaggio con grande dignità e coraggio. La forza espressiva che scaturisce dalle tele di MODICA è ribelle e non di rado il suo pennello si rileva amoroso, poetico, duro, incisivo, esplosivo e spara «comu nà scupetta carricata a lupara». La sua ARTE, il suo dramma (il padre assassinato dalla mafia), la sua battaglia meritano solidarietà e stima, per questo MODICA fa parte della mia «fazzolettata» d’amici bassi, però di quelli piccoli e pieni dentro come le arance succose, di quelli che hanno zappato e seguitano a zappare, a seminare nella terra e dentro il cuore degli uomini. MODICA appende rami d ulivo alle spade puntate, alle recenti minacce ricevute Croci nere sulla sua tenda in Piazzale della Pace. Questi sono i miei amici. Amici bassi, ma così alti a guardarli che mi girano gli occhi. Ignazio Buttitta
EMANUELE PRISCO
Intorno alla pittura di Emanuele Modica c’è il rischio di un equivoco, che tende a mettere, negli articoli che m’è capitato di leggere a proposito delle sue varie mostre, l’accento sul personaggio più che sul lavoro, a causa della «trovata» della tenda mobile, con cui l’artista si sposta da un luogo all’altro e dove organizza le sue esposizioni.
Siciliano di Palermo ma da anni parmigiano d’adozione, segnato da un grosso trauma familiare (la morte del padre ucciso dalla mafia), alla violenza Modica ha risposto a suo modo, facendosi pittore, e affidando alla pittura il suo messaggio di denuncia, di rabbia, di rivolta, ma anche di speranza, d’amore, di pace.Di qui la drammaticità del suo segno grafico, una certa propensione all’espressionismo come cifra stilistica e forza deformante (e prorompente), la prevalenza al monocromo, nelle sue tele, o in ogni caso il rifiuto alle tinte accese a vantaggio di pochi, lividi, spenti colori: il blu, il viola, il giallo, i grigi, e ovviamente il bianco e il nero.
Aggiungerei, ancora, che la pittura di Emanuele Modica è una pittura «civica»: e tuttavia la presenza dei contenuti non si fa mai prevaricante: sia che affronti l’inquinamento provocato nella nostra società dalla mafia e dall’omertà, sia che segnali i pericoli della follia nucleare. Modica non cade mai nei trabocchetti della facile demagogia tribunizia ma resta sempre ed essenzialmente artista e svolge il suo discorso pittorico con assoluta fedeltà a se stesso e con piena coerenza attraverso un itinerario preciso, che dalle prime prove, di tipo più materico e vicine a una sorta d’informale, dagli approcci a una scultura tormentata di ascendenza spesso giacomettiana, sono via via approdate al momento attuale, caratterizzato da un figurativismo ingabbiato, per così dire, nel giucco delle velature e delle sovrapposizioni e intersecazioni del segno.
E a questo punto direi che anche la trovata della tenda si giustifica pienamente e anzi rientra nel suo modo di far pittura, in quanto s’identifica col bisogno, da parte dell’artista, di un più largo colloquio con il pubblico, soprattutto quella fascia di pubblico che spesso, intimidita, non osa entrare in una galleria d’arte ed è forse quella che più può sentire (e con-sentire) la forza espressiva che promana dalle tele di Modica e quella carica sociale che come una sinopia scopertamente svaria da un quadro all’altro e li lega in un’unica tematica che rende cosi personale ed inconfondibile la presenza di Modica nel panorama artistico italiano. Emanuele Prisco
GIANNI GAVAZZINI
In Emanuele Modica la storia dell’artista è legata a filo doppio con la vicenda dell’uomo.
Una storia che si declina lungo i sentieri impervi del nomadismo, e quindi verso frontiere non toccate dalla pratica della pittura.
Ed è così che Modica è diventato il «pittore della tenda», dell’artista che porta la sua opera a contatto di realtà sociali e umane assorbite dal problema primario dell’esistenza.
In questa realtà Modica ha portato la propria vicenda, ma anche la propria visione in termini di pittura.È un cammino che, a guardar bene, presenta non poche analogie con quello compiuto dagli «ambulanti» russi, di cui proprio di recente abbiamo visto una mostra a Milano. Al realismo critico di quei pittori, al loro orientamento democratico, pare rifarsi Modica quando propone i suoi temi di denuncia all’attenzione di un pubblico ben diverso da quello che frequenta i luoghi deputati dei musei e delle gallerie. Sono argomenti a forte densità drammatica, di presa immediata, quindi, sulla sensibilità di chi si affaccia, magari intimidito, all’ingresso della tenda che Modica innalza, ad ogni aprirsi di stagione, sulle piazze di piccole città o di defilati paesi.
E da dire, poi, che Modica avanza le sue proposte in termini di autentica pittura, senza indulgere a bozzetti di facile consumo o a semplici illustrazioni di una realtà convenzionale. Gli è stato d’aiuto, in tal senso, il sodalizio elettivo con Ignazio Buttitta, imperioso cantore di un mondo toccato dal nudo segno della verità.
Vorrei concludere questo saluto affettuoso a Modica, in occasione di questa sua mostra a Milano, con le parole di Aleksandr Ivanov, uno dei fondatori dell’arte democratica russa dell’Ottocento, riportate da Raffaele De Grada nel testo al catalogo per l’esposizione degli «ambulanti».
«L’artista deve essere assolutamente libero, non sottomesso mai a nessuno. La sua indipendenza deve essere senza limiti. Sempre in osservazione della natura, sempre nell’intimo di una vita calma dell’intelletto, egli deve scegliere e tirar fuori il nuovo da tutto quanto ha raccolto, da tutto quanto ha visto.
L’artista russo deve senz’altro viaggiare per conto proprio per la Russia e mai andare a Pietroburgo che è una città che non ha niente di caratteristico».
Per quel che ne so. Modica non è mai andato, con la sua tenda, a Roma (che è la nostra Pietroburgo), perché là, davvero, non c’è proprio nulla di «caratteristico»: c’è, invece sulle piazze delle piccole città e dei defilati paesi di un’Italia che pare esclusa dalla scena illuminata della storia: e che proprio in rapporti veri, come questi proposti da Modica con la sua pittura, ritrova le ragioni della sua illesa verità. Gianni Gavazzini
LORENZO PIRAS
Abbiamo conosciuto l’artista Emanuele Modica nel lontano 1975, quando da poco lasciato la natia Sicilia, approdò in Penisola Sorrentina, iniziando con una esposizione delle sue opere a capri. Dopo l’Isola Azzurra, dove purtroppo i benpensanti capresi non gli fecero grande festa, a parte qualche persona di grande sensibilità, allestì una mostra nella hall del Cinema Teatro Delle Rose a Piano di Sorrento. Doverosamente andammo al vicino locale per renderci conto della validità o meno dell’artista. Ecco cosa scrivemmo in quella occasione. Una recensione che il pittore gradì e che la ripropose per decenni ad ogni sua esposizione in giro per l’Italia che faceva non nelle gallerie d’arte, bensì con una sua tenda. // dolore nelle tele di Emanitele Modica “La pittura di Emanuele Modica riesce a sostenere un discorso, un valido discorso, fra la concezione del dipingere e quella di intendere l’arte. Un dialogo piuttosto difficile per lo sprovveduto amante del bello ma non del buono, attaccato a quello che si vede ma non a quello che si dovrebbe sentire; un contatto che diventa interessante per chi dell’arte ne fa una ragione di vita, di progresso, di continuità sociale, ma che rischia - ed è un peccato doverlo dire - di sfociare in un soliloquio, allorché la vasta immaturità da parte di chi osserva {ed è proprio vasta) affiora con tutta la sua forza nel momento in cui si viene a trovare a cospetto delle opere. Ma Modica, che ha capito benissimo i vuoti che esistono al di là della barricata, ha cercato di scendere verso il grosso pubblico, mettendo anche la sua voce pacata vicino al quadro, facendo si che chiunque potesse interpretare nel modo più chiaro e convinto le sue opere. E per fare ciò, si è munito di una tenda e li dove trova un po’ di spazio libero vi si installa, rimanendoci per alcuni giorni, il tempo di farsi conoscere, interpretare, ammirare, e poi, via a continuare a vagare per le vie e piazze della nostra penisola. A vagare anche per dimenticare qualcosa, qualcosa di molto grave che gli è stato fatto: gli hanno ammazzato ìl padre ed egli ne rinfaccia il mal subito alla mafia con le sue poesie e i suoi quadri.
Tutta questa travagliata sceneggiatura riesce ad eliminare dai quadri di Modica, quel senso di surreale che di primo acchito gli si potrebbe affibbiare, dandogli il giusto termine che deve essere quello di atipica trasfigurazione, pur restando a quella forma di logica dettata dalla coscienza e da! proprio credo psicologico. Dove nasce una vita, lì c’è una lupara: vita e morte fuse in un solo triste canto che viene dalla terra insulare. Un parto sofferente sotto il sole battente dell’estremo sud: dietro la porta la conclusione dì una vita, che riscatta il sorgere di una nuova vita. Il nuovo tamponerà il sangue de! vecchio. Anche un fico d’india ha più vita, lì dove giace un uomo freddato da una lupara.
E’ quasi una logica della natura, il processo che Modica ci viene a proporre attraverso il suo interessante discorso pittorico, e diventa ancora più logico nel momento in cui il surrealismo umano si trasfigura come segno di vendetta, di lotta, di biasimo, di reazione, di cruda e silenziosa minaccia alla nostra tormentata società. Società inquinata da un po’ di tutto: accattonaggio, truffa, delinquenza, assassinio. E Modica, che soffre in forma diretta questo stato di cose, porta il suo messaggio, senza trascurare alcun particolare che possa essere dettato dalle sue opere”. Lorenzo Piras
FRANCESCO CARBONE
La tenda è la dimora del nomade, il simbolo della provvisorietà, degli spostamenti tipici delle culture abitative e orientali.
Da oltre 25 anni, un autentico artista palermitano Emanuele Modica, la usa invece non come involucro o normale contenitore di persone e oggetti, ma come tempio di una sacralità ambulante fondata sull’arte.
Infatti Modica, da quando utilizzò per la prima volta la tenda 25 anni fa a piazza Castelnuovo di fronte al Politeama Garibaldi, proponendo le sue opere dal carattere eterogeneo (quadri, sculture, oggetti o, meglio, materiali dalle forme spontanee ma fortemente simboliche), ha iniziato ad andare in giro per l’Italia installando la tenda in molte città.
“Il pittore della tenda” è stato definito e sotto questa etichetta si sposta da una città all’altra. Si tratta, occorre precisare, di una tenda “ideologica”, cioè un luogo i cui contenuti d’arte vogliono esprimere la rabbia e la protesta dell’artista contro ogni violenza, soprattutto quella della mafia che privò Modica, ancora giovanissimo, della presenza del padre.
Così la tenda, espressione essa stessa di costante memoria, cattura la visione del visitatore, inducendolo a più di una riflessione, quella sugli esiti specificatamente estetici unitamente alle connessioni che essi intendono stabilire con i valori etici, con la qualità della vita che la protesta di Modica reclama con la sua intelligente coerenza sia artistica che comportamentale.
Le sue opere vivono inevitabilmente di un suggestivo e coinvolgente eclettismo linguistico, dove prevale però una personalissima componente espressionista attraverso una raffigurazione efficacemente scomposta, fortemente vibrata ed ibrida nelle stesure cromatiche, nei viluppi delle campiture, negli ingorghi delle fasciature bianche, grigie, rosee, azzurre, verdastre, tendenti nel contempo ad indiziare simboli, scenari tormentati di sembianze umane, volti stravolti. Oppure crocifissioni cruente in sovrapposizioni e intersecazioni di piani, di riverberi luminosi, di ghirigori, di intrecci di linee e di segni che avvolgono truci figure amorfe.
Una pittura drammatica, dunque, costellata anche di splendide pause di poesia: quei nidi di uccelli, nidi veri meravigliosamente tessuti di pagliuzze essiccate e sorretti da esili rami d’albero; ed anche quei simboli nostalgici di chi, come lui, vive lontano dalla propria terra; l’emigrante che tende a tornare e a possedere un “fazzoletto di terra”.
E poi la poesia scritta, una densa produzione dello stesso Modica dedicata spesso agli eventi funesti della vita, alla mafia, alla sua Sicilia, al padre trucidato.
Così l’artista e le sue spontanee capacità creative, quel suo stupefacente modo di concepire l’arte quale espressione dell’uomo e della sua socialità civile e spirituale, coniuga se stesso con l’universo di uno straordinario immaginario segnico e rappresentativo espresso all’interno di un singolare
habitat-la tenda, appunto-, luogo di sacrifici ideali genialmente propiziatori, e tempio di una sacralità laica, profondamente umana.
È dal 1969 che gira per paesi e città esponendo nella sua tenda, portando a tutti, in particolare ai giovani, il suo messaggio con grande dignità e coraggio. La forza espressiva che scaturisce dalle tele di MODICA è ribelle e non di rado il suo pennello si rileva amoroso, poetico, duro, incisivo, esplosivo e spara «comu nà scupetta carricata a lupara». La sua ARTE, il suo dramma (il padre assassinato dalla mafia), la sua battaglia meritano solidarietà e stima, per questo MODICA fa parte della mia «fazzolettata» d’amici bassi, però di quelli piccoli e pieni dentro come le arance succose, di quelli che hanno zappato e seguitano a zappare, a seminare nella terra e dentro il cuore degli uomini. MODICA appende rami d ulivo alle spade puntate, alle recenti minacce ricevute Croci nere sulla sua tenda in Piazzale della Pace. Questi sono i miei amici. Amici bassi, ma così alti a guardarli che mi girano gli occhi. Francesco Carbone
Canto per gli uccisi dalla mafia
“Al Pittore della Tenda” Emanuele Modica
Ignazio Buttitta
Nta sta tenna e nni sti quatri
c’è me matri e c’è me patri;
c’è me patri zappaturi
chi sudava vinti uri
e la mafia, assassina,
l’ammazzau na matina.
Io ca era dda vicinu
- picciriddu e cuntadinu -
ntisi i colpa da lupara,
vitti a terra fatta sciara,
e me patri misu a cruci
senza ciatu e senza vuci.
Nne me vrazza i picciriddu
lu strincìa ed era friddu,
grapi a vucca, lu prigai,
e chiancennu siguitaj:
dammi rurtimu cunsigghiu
si sì u patri e io sugnu u fìgghiu.
Commento
E me patri parrò,
dissi sulu, e chiuiu l’occhi:
«Cummatti a mafia!»
Ed io sugnu cca di tannu
a girari cita e paisi
cu sti quatri
e a facci scummigghiata
pi luttari a mafia
ca disonura a Sicilia
ch’è terra d’amuri e di libirtà.
Nta sta tenna e nni sti quatri
c’è me matri e c’è me patri,
e ci sunnu morti-vivi
mmenzu u focu e supra alivi
cintinara d’ammassati:
E fra chisti, cunsacrati,
Dalla Chiesa, lu prifettu,
omu onestu ed omu nettu;
E La Torre, u nostru Pio:
Ncelu e nterra nàutru dio,
nàutru dio!
Traduzione
In questa tenda e in questi quadri
c’è mia madre e c’è mio padre;
c’è mio padre zappatore
che sudava venti ore
e la mafia, assassina,
lo uccise una mattina.
Io che ero a lui vicino
-piccoletto e contadino -
sentii i colpi di lupara
e la terra farsi sciara
e mio padre messo in croce
senza fiato e senza voce.
Nelle braccia di bambino
lo stringevo ed era freddo:
aprì la bocca, lo pregai,
e piangendo seguitai,
dammi l’ultimo consiglio;
tu sei mio padre: io sono tuo figlio.
Commento
E mio padre parlò,
disse solo, e chiuse gli occhi:
«Combatti la mafia!»
Ed io sono qui ora
a girare città e paesi
con i miei quadri
e a viso aperto
per lottare la mafia
che disonora la Sicilia
terra d’amore e di libertà.
In questa tenda e in questi quadri
c’è mia madre e c’è mio padre,
e ci sono morti-vivi
sopra il fuoco e nella neve
centinaia di ammassati:
e fra loro, consacrati,
Dalla Chiesa, il fu prefetto,
uomo onesto ed uomo netto,
e La Torre, il nostro Pio:
in ciclo e in terra, un altro dio,
un altro dio!
Ignazio Buttitta
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IL TEMPO E LA STORIA
Quanta strada,
quante lacrime
e quanto sangue ancora, compagno
la storia zappa a centimetri
e gli uomini hanno i piedi di piombo.
Non paria l’amarezza
che mi copre il cuore stanotte,
nè l’oscurità sulle montagne,
ma il silenzio dei secoli lontani.
Quando ti sembra di arrivare,
sei all’inizio compagno;
non ti avvilire per questo,
seguita a svuotare pozzi di dolore,
altre braccia dopo di te e di me verranno.
Non ti stancare di strappare spine,
di seminare all’acqua e al vento;
la storia non miete a Giugno,
non vendemmia a Ottobre,
ha una sola stagione:
II Tempo.
Non ti avvilire compagno,
se non ti so dire
quando il sole
finirà di seccare
le piaghe della terra.
Ignazio Buttitta
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A MIO PADRE
Adoravo mio padre perché
aveva la purezza di un
diamante allo stato grezzo...
allora ancora in vita...
io facevo il contadino assieme
a lui....ero felice di aiutarlo
mietevo l’erba; governavo le bestie
accarezzandole; pulivo la stalla...
e sentivo il nitrito del puledro,
il canto degli uccelli, il mormorio
degli alberi....
Poi quando zappavo.... ricordo
mettevo tanta forza nelle mie
braccia perchè quell’arnese
di ferro battuto, entrasse con furia
nel più profondo....quasi a
smuovere le viscere della terra....
e sentivo quell’odore selvaggio!
Pungente! Vergine! Si!...
Uno di quegli odori ancora
più sconvolgenti della
stessa musica di Beethoven,
che hanno il potere
divino di purificare
i nostri spiriti e
innalzare i nostri
corpi come piume
per le vie infinite
del cielo e delle stelle.
Poi .....una terribile
notte di fuoco,
venne quella micidiale
zampa umana..... e
spense una candela,
rubò il mio tesoro....
portò via la mia felicità.
Che tremendo dolore....
quando ti vidi là disteso
bocconi!!... Volesti baciare
per l’ultima volta quel solco
di terra....
Papà.... hai sofferto?
Sei felice ora?
Dimmi....ti prego!
Com’è la morte?
A lui
Emanuele Modica
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MAFIA
Mafia!
Mafia maledetta!
La mia ferita si è guarita...
ma il dolore si è inchiodato...
si è fuso nel mio cuore...
non si può spiegare... così in due parole.
Io...
ho visto quel flagello...
il sangue del mio sangue...
putrefarsi...
mescolarsi con la terra...
e gridar nelle notti nere...
fra gli spari di due canne mozze...
un limone... un contadino...
spremuti sulla terra son caduti!!!
Mafia! Mafia maledetta!!
Non senti il pianto di questa madre?
I suoi figli han tanta fame!
E tu?
hai tolto...
il nostro pane!!!
Emanuele Modica
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IL NIDO (alla piccola Cristina)
Era a Gela
La mia «tenda» pellegrina:
meriggio, sera, o mattina?
Non so...
Diceva una voce di bambina;
Mamma se la tempesta,
il vento, un ciclone nella notte
la sua «tenda» spezzerà... lui morirà.
No!!... Cristina cara...
il buon Dio lo salverà!!!
Mi avvicinai a quell’ angelo di
bambina... e le dissi:
Grazie! Cristina!!!
Non temere!!... hai sentito la
tua mammina... il buon Dio mi salverà!!!
Non devi aver paura...
Se una vera donnina!!!
Vieni questa sera a casa mia?
No… Cristina cara!!!
non posso i miei quadri abbandonare.
E’ carino questo... NIDO... ma è vuoto?
Dove sono gli uccellini?
Forse... l’hanno uccisi?
O un cattivo cacciatore li ha... rapiti?
Quell’angelo di bambina abbracciai...
In fronte la baciai...
una lacrima gioiosa...
mi spuntò e lei ditino...
accarezzò!!!
Emanuele Modica
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Al pittore della tenda
Piccolo e grande uomo
silenzioso
fuori la forza
di un gigante
dentro la fragilità
preziosa
di un uomo generoso
prego Dio
che ti guardi ogni giorno
della tua vita itinerante,
dal tuo coraggio,
dalla crudeltà del mondo,
che allontani il dolore
dalla tua fronte prodigiosa,
che ti dia la gioia
grande
di vedere il male
sconfitto un giorno che
non sia distante
Tilde Mogliotti